Bisogna accettare il proprio ruolo nella commedia della vita. So che è consigliato non esporsi troppo per lavorare tranquillamente. Ma poi arrivi ad un’età in cui è difficile tirarsi indietro». Ascoltiamo Kasia Smutniak, che di ruoli ne sta interpretando tanti nel cinema o nelle serie tv, e ci viene in mente quale sia il suo ruolo ora, il suo posto, che tempo sia nella vita. Se la seguite sui social è una che rivendica: che si batte per il diritto delle donne polacche di scegliere se abortire o no, per esempio; che crea un effetto su Instagram per combattere gli stereotipi sulla vitiligine. Una che vola alto (da pilota e figlia di pilota), con le Frecce Tricolori, ma che poi atterra («una delle poche cose buone del lockdown è stata poter atterrare a Ciampino al tramonto, una sera»). Ma è, forse ora più che mai, una donna che costruisce: il consenso per certe sue battaglie, sfruttando popolarità e seguito; una scuola nel Mustang, in Nepal, che significa futuro, forse addirittura libertà per tanti bambini e fiducia nel domani per le loro madri.
Kasia Smutniak: «Fedez ha usato bene i social, chi ha voce ha responsabilità»
Eppure per una che è ormai una star internazionale del cinema e delle serie tv sarebbe meglio starsene tranquilla a godersi il successo: protagonista come Livia Drusilla, moglie dell’imperatore Augusto, della serie Domina su Sky e Now; al centro del progetto d’autore di Silvio Soldini; protagonista con Favino e Nanni Moretti della trasposizione cinematografica de “Il colibrì” del suo grande amico Sandro Veronesi. «Io non mi posso più tirare indietro. Da bambina passavo tanto tempo nella casa di mia nonna a Lodz: la casa sorgeva sulle macerie del Ghetto ebraico. I palazzi intorno appartenevano a famiglie sterminate nei campi. I rastrellamenti avvenivano nel silenzio di chi la domenica poi portava al parco i figli a giocare. Nelle caffetterie non se ne parlava. Succedeva perché la paura di perdere tutto ti fa chiudere gli occhi. Ora – prosegue Kasia – io non ho più 20 anni, ora le informazioni le ho tutte. Certo, devi dribblare le fake news, ma non puoi non agire. Voglio avere la coscienza pulita e non trovarmi a non saper rispondere ai miei nipoti che mi chiederanno: dov’eri mentre si negavano i diritti?».
Dov’è Kasia ora? Magari a scattarsi foto nella casa-rifugio in campagna con l’asina Bea. O su un red carpet a Hollywood. O al fianco di Giorgio Armani. Oppure in Tibet con la Onlus intitolata a Pietro Taricone. La donna costruttrice di futuro, eccola. «Capitai nel Mustang con Pietro, ci perdemmo lì. E andando via, dopo settimane, ci domandavamo cosa potevamo fare per quella gente che non aveva elettricità e istruzione. Poi ci fu la morte di Pietro e io, come tante donne, anche la Drusilla della serie tv, sentivo dentro di voler ricostruire qualcosa sopra le macerie della tragedia. Nacque la Onlus e l’idea della scuola». In cinque anni, 84 bambini che stanno crescendo. «In quel luogo pietroso sull’Himalaya tutto sembra difficile: pensavo all’impatto della mia azione in quel territorio tra Nepal e Tibet. E invece aumentiamo di 15 bambini l’anno, le madri vengono da noi alla Ghami Solar School e io, quando ci torno, vedo la felicità nei loro occhi. Mi immedesimo in loro: la cosa più bella è sapere che i tuoi figli possono farcela. Che una scuola è la possibilità di scelta, nell’antico Regno di Lo ma anche in Polonia e Italia: il privilegio dell’istruzione lo capiamo poco, c’è voluto il lockdown per ricordarci quanto fosse decisivo il ruolo nella vita degli insegnanti».
Dice una cosa bellissima per una che ha preso la bandiera delle persone con vitiligine: «Quel villaggio è una macchia positiva, veloce e forte. Non me ne rendevo conto ed era già più grande di quello che immaginavo. E non ho più l’ansia di fare ancora di più: vedo le cose che cambiano, che un’autostrada che congiunge Cina e India sta per passare. E quando invito lì i miei amici, la mia famiglia posso dire che ormai ci arriva “quasi” internet». Nel luogo pensato per onorare Pietro, ci ha portato il marito, Domenico Procacci, la figlia Sophie. Ghami è un affare di famiglia. Che tempo è, questo, per le donne? «Ma è un tempo di lotta: in Italia il fenomeno della violenza è ancora così radicato. L’emancipazione non può scatenare questa rabbia: questo è un gap inaccettabile, se non è tempo di rivoluzione questo? Il tempo è arrivato. E servono donne che la scrivano questa storia».
Crede, Kasia, nella rivoluzione dei codici estetici. «La rivoluzione di essere se stessi: accettare i difetti, esporli. L’ho fatto e mi sono sentita subito meglio. Io non posso più somigliare alla ragazzina di 17 anni che sfilava per scommessa. Quelle immagini in copertina sono tutte finte, inesistenti. E allora ridiamoci su, per favore, che la vita è faticosa. Con la pandemia, ne sono convinta, gli ideali estetici di due anni fa non andranno bene più. È il tempo».
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