L'olimpionica di judo Giulia Quintavalle: «Nella vita bisogna allenarsi a cadere e tornare in piedi»

La prima cosa che insegno ai miei piccoli allievi è come imparare a cadere e a rialzarsi per continuare a combattere. Un aspetto fondamentale della disciplina. Nella quotidianità non te lo insegna nessuno, al contrario ti spiegano come evitare di cadere. Ma questa abilità è tra le cose più importanti che lo judo mi ha trasmesso e penso sia decisivo nella vita. Osare, provare, andare giù e poi rialzarsi con velocità per affrontare una nuova sfida. Alcuni bambini si irrigidiscono nella caduta, finché capiscono che non succede niente e si sbloccano. Quando impari a non aver paura di cadere, puoi arrivare dove vuoi. Perché l’avversario più grande da battere è proprio la nostra paura, le nostre tante paure. Ci vuole allenamento, bisogna lavorare su se stessi, convincersi del proprio valore. «Io sono», «io posso», «io voglio vincere». Ho imparato a ripeterlo prima di salire sul tatami, mi aiutava a concentrarmi, caricarmi e rilassarmi. Ho sempre affrontato le gare, anche le più importanti, con tranquillità, senza stress o ansia. Alle Olimpiadi di Pechino 2008 non ero per niente tesa anche se mi aspettavano competizioni impegnative. Sdrammatizzavo, andavo in giro per mercatini, sembrava che fossi lì per la vacanza e invece stavo per affrontare la sfida più importante della mia vita da atleta. E sono riuscita a conquistare l’oro a 25 anni, alla mia prima Olimpiade.

LO STRESS

Imparare a controllare le emozioni, saper gestire l’adrenalina senza indebolire la voglia di arrivare: questo è un altro regalo dello judo. Grazie a questo sport sono diventata pacata, tranquilla, riflessiva. Non mi esalto se una cosa va bene, non mi demoralizzo se va male. Penso che questo modo lucido e rilassato di affrontare le competizioni mi abbia aiutato a ottenere i successi che ho raggiunto. E dire che da piccola ero tutt’altro che tranquilla. Avevo l’argento vivo addosso, ero vivacissima. In casa nostra c’era così tanta confusione che mia madre, quando avevo cinque anni, ha portato me e il fratello gemello Michel a lezioni di judo, che già praticava Manuel il più grande di noi. La palestra del maestro Renato Cantini, a Cecina, era la mia vita, sarei rimasta lì tutto il giorno, allenarmi non mi pesava. A 16 anni ero nel giro delle nazionali, a 19 sono entrata nelle Fiamme Gialle e mi sono trasferita ad Ostia. Per tanto tempo ho seguito questa routine: sveglia prima delle 8, dalle 10 alle 12 seduta di judo e il pomeriggio dalle 17 alle 19 preparazione atletica, alle 19,30 cena insieme. Giovedì pomeriggio e domenica liberi. Vivendo con persone che hanno i tuoi stessi obiettivi, avendo come amici atleti che sopportano i tuoi stessi sacrifici, non senti tanto il peso delle rinunce. Quando dovevo perdere peso per cambiare categoria, allora gli allenamenti si intensificavano e la dieta diventava più rigida, ero seguita da un nutrizionista. Non ho mai mangiato molto e anche adesso che non gareggio più faccio molta attenzione all’alimentazione, sono piuttosto rigida soprattutto con i miei figli, voglio che siano educati al cibo sano: merenda con carote, frutta o yogurt.

Ma la disciplina è molto di più che orari, dieta e organizzazione. Per competere a un certo livello ci vuole volontà, determinazione, voglia di vincere, tanta curiosità. Per me lo sport è vita e non ho sentito, fino alla soglia dei 30 anni, la fatica degli allenamenti e della vita sempre in viaggio. E la disciplina che si apprende con lo judo la puoi portare anche fuori dalla palestra. Questo sport ti insegna a stare al mondo, a socializzare e vivere secondo alcuni valori: il rispetto dell’avversario, l’umiltà, l’accettazione degli altri. Anche se le gare sono individuali e sul tatami sei solo, c’è sempre una squadra dietro di te e si lavora insieme per raggiungere i risultati. Un atleta per vincere deve stare bene, avere un clima sereno e intorno persone che lo comprendano. Mio marito era nella nazionale Fiamme Gialle ed è sempre stato dalla mia parte, il primo ad appoggiarmi. Mi aiutava nello studio dell’avversario, fondamentale nello judo, mi spronava anche a livello mentale. Solo da grande sono stata affiancata da uno psicologo che mi ha aiutata nella crescita, ad affrontare la gara con più convinzione del mio valore.

LA COSTANZA

Io avrei voluto essere più costante. Raggiungevo risultati ma poi mi veniva difficile confermarli. Alle Olimpiadi di Londra nel 2012 ero incinta ma non lo sapevo. Ho dato il massimo e sono arrivata tra le prime otto al mondo ma non sono riuscita a confermarmi. La medaglia di Londra me la sento lo stesso al collo, anche se non sono salita sul podio come a Pechino. Nel 2013 è nato Leonardo, avrei voluto smettere. Mi sono guardata un poco intorno, le mie colleghe continuavano e mi sono rimessa in gioco per il 2016, ma ero distante dalla qualificazione e mi sono fermata. Adesso ho 38 anni e due bambini, nel 2016 è nata Zoe, sono rappresentante tecnico del Consiglio nazionale del Coni e mi impegno perché la maternità delle atlete non venga più punita e i contratti non siano più rescissi, come capita in diverse società, quando le ragazze scoprono di essere incinte. Essere mamma è un valore aggiunto, un dono da valorizzare e festeggiare, una rinascita. Ma tante società non l’accettano. I miei figli, fin quando è stato possibile, hanno frequentato la palestra di judo, a Rosignano, dove faccio scuola, con la stessa società in cui mi sono formata da piccola. E ora riprenderanno. Hanno imparato anche loro quanto è importante saper cadere e rialzarsi.

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