Ci conosciamo da un po’, con Anna Foglietta, e allora mi posso permettere un gioco.
Dire, fare, baciare, lettera o testamento?
«Fare, scelgo quel verbo che per me è qualcosa in più. Non un comandamento, ma una fonte sorgiva dell’anima. A Venezia da madrina della Mostra scrissi il mio discorso sul verbo fare in disuso. Qualcosa che mi viene naturale da sempre. Come far cadere lo sguardo su chi è in difficoltà».
In realtà era di questo che volevamo parlare: cinque anni fa lanciava (in quel caso con Lillo e cento altri amici attori, cantanti), Every child is my child. Scattaste in tanti. Un concerto, poi le raccolte di beneficenza, i progetti per una scuola nella Siria dove i bambini scappavano dalle bombe chimiche.
«Quando da movimento spontaneo devi diventare associazione e dare seguito all’impegno istantaneo il passaggio non è scontato. Penso a tre mesi fa: scoppia la guerra in Ucraina e in molti mi chiamavano. Dobbiamo fare qualcosa, la gente voleva prendere famiglie in casa, c’erano quasi crisi isteriche per l’impotenza: ma proprio nelle emergenze si deve essere seri, continui, costanti. Io dico che Every Child ha capito in questi anni, laicamente, che non può fare tutto ma dirigere la volontà e i fondi su chi della singola emergenza si occupa da anni. E così per l’Ucraina ci siamo affidati a Soleterre, che da vent’anni è sul territorio occupandosi di bambini e ospedali lì. A Roma, Milano e Napoli abbiamo dato vita a Facile Sognare: aiutiamo a ristrutturare ludoteche in quartieri simbolo appoggiandoci ad associazioni che ci lavorano. A Roma a settembre sarà pronta una ludoteca per i bambini di Tor Sapienza. Noi ci mettiamo la credibilità e il nostro voler essere un ponte, non l’approdo. La solidarietà è come un muscolo: devi allenarlo tutti i giorni, un po’ per volta. La scuola in Siria dove tutto è cominciato era una baracchetta con 15 alunni: ora ogni anno ne accoglie 80. E il primo ragazzino arrivato ora ci aiuta a far inserire gli altri».
Un senso del limite che per una generosa per costituzione è “metodo”.
«Avere senso del proprio limite è fondamentale per rispettare se stessi e gli altri. Siamo esseri umani che fanno gli esseri umani. Un po’ mi costa, questo limite. Io, da sempre, ho guardato alle persone in difficoltà attorno a me, anche quelle piccole. Lo faccio da quando andavo alle elementari. Una volta ai premi Ciak a Cinecittà ho visto una bambina in difficoltà, forse figlia di qualche collega, e ho lasciato Giallini e tutti gli altri del cast di Perfetti Sconosciuti ai brindisi, e non riuscivo a vedere che quella bambina. Io penso che il mio vero talento sia questo».
Nel cast di Perfetti Sconosciuti l’avevano quasi eletta a reggitrice dell’ordine sul set: così dicevano Edoardo Leo e Giallini…
«Io non sono mai stata una secchiona: a scuola mi hanno anche bocciata, una volta. Ero un’anarchica. Ma sul lavoro sono diventata una nerd, superproduttiva. Da madre di tre figli e donna di cinema lo devo anche essere: ci tengo troppo a tutti, i figli, mio marito e il cinema. Il fatto è che detesto perdere tempo, il tempo anche dell’ozio lo metto a servizio di qualcosa. Ecco: si deve dare un senso al tempo che abbiamo e a quello che si fa. Non sono una dipendente dal lavoro, ma vorrei che si capisse che se fai questo mestiere un po’ l’ego lo devi alimentare, mi piace; ma poi dopo una settimana in tournée o a girare un film, rientri in famiglia e devi riequilibrarti. Per godermi questa nevrosi, questa voglia di impegnarsi molto il tempo lo devi rispettare e usare bene».
A Paolo, suo marito, dedica post bellissimi.
«Per lui tutto questo è più difficile che per me. Una persona che vive e lavora fuori casa può essere compresa solo da chi capisce quel ritmo. Non è facile fare l’artista madre: in casa sei quella che fa la valigia, che spiega ai figli che è giusto andare. Sono allenata, ma mi costa sempre molto».
Non si fa l’abitudine?
«No. Perché Paolo e i miei figli mi mancano sempre molto; perché mi piace stare con loro. E quando torno lui capisce che devo rientrare nella parte di moglie e madre. E allora mi dice: Criceto, basta correre nella ruota, andiamoci a fare un aperitivo. Io e lui; e mi ascolta e si fa ascoltare. Questa fortuna si chiama alchimia. È una questione di chimica, come nella canzone».
Mamma che fa la valigia.
«Che vuole farla: sono una donna con aspirazioni, solo così sono Anna. E questo spiego ai figli: quando dicono “mi manchi” è una ferita profonda, ma la curo. Una madre realizzata è un modello aspirazionale, un modello positivo. Mia madre rinunciò al lavoro, spesso me lo ricordava. Diventa un ricatto morale che io non voglio perpetrare: vorrei che di me si dicesse “Anna non ha rinunciato a niente per voi: fate come lei”. Comunque, vale sempre la pena di… fare tutto se si può. Ero sul set con Alessandro Gassmann e Proietti, a Civitavecchia, e c’era il saggio della scuola materna di mio figlio. Ho chiesto di darmi due ore. Saggio seguito, festa fatta, diplomino, ballo e foto e di ritorno sul set: ero stanca morta, ma ce l’ho fatta».
Famiglia numerosa, comunque.
«La testa fa meno fatica: devo distribuire tutto, anche l’amore. Ma così capisci che se fai un po’ meno per ognuno, finisci per aiutarli tutti di più, li responsabilizzi». Ma dell’Anna fricchettona dei tempi del liceo cosa resta? «Un’evoluzione. Fare tesoro profondo degli errori, perdonandoli con tenerezza: ma la vergogna della bocciatura in seconda liceo mi resta, con un nuovo comandamento esistenziale».
Quale?
«Quello delle seconde possibilità, del tempo – rieccolo – da recuperare. E dell’apologia dell’imperfezione». Partite di beneficenza o galà di charity, sorrisi e paillettes: il rischio di sembrare in contraddizione con le missioni difficili, drammatiche di cui si occupa Every Child. «Approccio laico e adeguatezza alle situazioni: quelle cose servono perché senza fondi non si aiutano i bambini. Che sono ovunque: alla scuola in Siria. In Ucraina. A Tor Sapienza. Il disagio è ovunque: Roma è una metropoli gigantesca, ha bisogno di attenzioni costanti come quelle che l’associazione Antropos dedica a quel quartiere da 20 anni. A settembre saremo lì a vedere i risultati di Facile Sognare, sporcandosi le mani».
Un’avventura molto intensa, il ritorno a teatro con L’Attesa: un passo a due con Paola Minaccioni e la regia di Michela Cescon.
«Ho scoperto Paola, giorno per giorno: sul palco e fuori. C’eravamo cercate tanto, in carriera. Poi questo testo in cui si parla di femminilità, maternità, omosessualità così profondo. E sul palco solo noi, i nostri corpi e la voce senza microfono».
Il canto è una passione.
«Adoravo Brecht e Weil: per salire su un palco e cantare ci vuole un tempo lungo, me lo prenderò. L’età che passa serve per quello…».
Brecht, Weil… E Rugantino?
«Sarebbe il sogno di mio padre vedermi fare Rosetta. Ma non è il mio sogno: forse quella è una Roma che non esiste più. E Roma, oggi, avrebbe bisogno di un’altra narrazione. A differenza di Napoli, sempre fedele a se stessa, questa è una metropoli trasfigurata, con tre milioni di anime e periferie non connesse con la Roma di Trastevere o di Rugantino. E sulle periferie la narrazione è spesso retorica, fatta di cliché: non è un bel servizio che si fa a chi vive quei luoghi con legalità, oltre ogni difficoltà che gli si para davanti nel degrado».
Penso ad alcuni suoi personaggi e mi chiedo quale le sia rimasto attaccato addosso.
«Mi restano addosso le idee che portano quelle figure. Franca Rampi, la mamma di Alfredino: dal giorno dopo quella morte assurda di un figlio, la costituzione di un’associazione che ha fatto nascere la Protezione civile in Italia e che aiuta a salvare centinaia di vite. Interpretavo Alda Merini e mi sono nutrita di poesia: con lei ho capito che l’arte è una necessità. La Iotti e il suo discorso: la propria vita che diventa un manifesto politico».
E la pescivendola affascinante di Colpi di fulmine o Eva, escort per necessità?
«Mi ha ispirato la vera pescivendola del mercato di Testaccio, la regina del mercato: sempre bellissima e grande venditrice. Se ripensiamo anche a Nessuno mi può giudicare esce fuori un mondo che è quello dei quartieri di Roma dove ancora ci si dà una mano. In centro ci sono gli Airbnb, a nessuno puoi chiedere di tenerti il pupo 15 minuti per andare a fare la spesa. In quel film c’è una città in cui non ti senti solo».
Si è accorta che parla molto di lavoro e tempo: dopo il Covid qualcosa è cambiato nella nostra bilancia personale di questi elementi.
«Il Covid ha accelerato un processo di consapevolezza: è importante lavorare e guadagnare, ma è importante il tempo per provare a essere felici. Creiamo occasioni per mettere a frutto il tempo e far diventare il lavoro un’occasione bella da sfruttare. Quando la nostra generazione faceva gavetta, non ci siamo tirati indietro: ora qualcosa è cambiato. Forse è l’illusione che danno i social: mostrare su Instagram o TikTok solo persone che fanno aperitivi o si divertono senza la vita vera crea una distorsione. La vita dei genitori che lavorano sembra solo triste. Per questo io spesso condivido immagini di vita reale: magari non sarà divertente, ma quella è la mia vita».
Un’intervista intera senza parlare di progetti…
«Film con Edoardo Leo, una bella cosa con Prime, la tournée che riprende… Every Child… Mi do da fare».