La spinta a rimettersi in gioco, la voglia di crescere, il gusto della sfida.
Sono i sentimenti che hanno portato Micaela Ramazzotti, 43 anni e 30 di premiatissima carriera sempre a cavallo tra drammi e commedie, due figli, a esordire nella regia: l’attrice romana, che a novembre vedremo nel film di Michele Placido L’ombra di Caravaggio e poi nella serie Disney The Good Mothers, sta completando in questi giorni il montaggio di Felicità, la sua opera prima interpretata da Max Tortora, Anna Galiena, Sergio Rubini, Matteo Olivetti, lei stessa. E in una pausa, accompagnata dalla figlia Anna di 9 anni e mezzo alla sua prima uscita pubblica, ha tenuto un’intensa, affollata masterclass per i ragazzi al Festival di Giffoni raccontando la sua vita, il suo lavoro, le sue emozioni. Quelle sprigionate dai suoi indimenticabili personaggi a fior di pelle, spesso ricchi di una disperata umanità, come Donatella, la mamma mentalmente disturbata di La pazza gioia, il film diretto dal marito dell’attrice Paolo Virzì: proprio parlando di lei a Giffoni («è il ruolo a cui mi sento più legata»), Micaela è scoppiata a piangere dalla commozione, consolata dalla sua bambina che le ha detto, «Grazie mamma». L’attrice ha poi aggiunto: «Io immagino Donatella che recupera la sua vita, quello che spero per tutte le donne che crescono in famiglie “matte” ma in cui il disturbo non viene diagnosticato, le donne sottopagate o sfruttate, lontane dai riflettori».
Ha debuttato nella regia perché voleva fare un salto di qualità?
«A dire la verità avevo il desiderio profondo di raccontare una storia che avevo a cuore e mi girava nella testa da tanto tempo: il tema di Felicità, titolo ironico, è come salvarsi dai legami familiari disturbati. Mentre mio marito dirigeva Siccità, ho detto di no a diverse offerte come attrice per stare con i bambini e al tempo stesso dedicarmi al mio progetto scrivendo la sceneggiatura con due amiche, Isabella Cecchi e Alessandra Guidi. Lavorare tra donne è un magnifico atto d’intimità».
Come attrice ha fatto centro sia nel dramma sia nella commedia, ha avuto premi e gratificazioni. Diventare regista rappresentava una sfida?
«La vera sfida è stata mettere nel film tutto il mio entusiasmo e il mio coraggio, ricevendo per prima cosa la fiducia degli attori che si sono buttati senza esitare nel progetto».
E cosa ha aggiunto alla sua vita questa esperienza?
«Ha aumentato la mia capacità di osare. Ha fatto schizzare in alto la mia autostima. Sono sempre stata un lupo solitario, ho vissuto chiusa nel mio guscio. Sul set ho dovuto imparare a spiegarmi, ad aprirmi agli altri con la lucidità necessaria. E sono felicissima di esserci riuscita».
L’evoluzione è importante per lei?
«È il filo conduttore del mio percorso. Iniziai a lavorare a 13 anni nei fotoromanzi senza alcuna formazione accademica. Venivo dalla periferia sud di Roma, il massimo della mia cultura cinematografica era il film Pretty Woman… mai sentito parlare dei grandi registi. Ho lavorato per emanciparmi, mantenermi da sola, mossa da una grande passione per la recitazione. Volevo trovare il mio posto nel mondo e ho trottato. Mi considero un’operaia del cinema».
Quando ha capito di essersi emancipata?
«Appena ho smesso di dipendere dal giudizio e dalle aspettative degli altri. Ci sono voluti 40 anni… All’inizio trasferivo le mie fragilità personali nei miei personaggi perché piacevano e sullo schermo funzionavano, poi ho continuato a dare voce alle “donne storte”, segnate dalla vita, con consapevolezza: per sostenere chi, a differenza di me, vive in una condizione svantaggiata».
Valeria Golino, Jasmine Trinca, Michela Cescon, Claudia Gerini, Paola Cortellesi, lei: sempre più attrici diventano registe perché il cinema dà finalmente spazio alle donne?
«È così. E io sono orgogliosissima, pur avendo tanti progetti come attrice, di far parte di questo gruppo di colleghe che hanno iniziato a far valere il loro punto di vista. Non mi sento sola… Ho gradito molto i complimenti del maestro Pupi Avati che nel 1999 mi diresse nel film La via degli angeli e che considero il nostro Clint Eastwood. Presto una regista donna sarà accettata con naturalezza, non farà più notizia».
Se una giovane aspirante attrice le chiedesse come si diventa Micaela Ramazzotti cosa risponderebbe?
«Che bisogna essere molto duri con se stessi. Io non mi sono mai accontentata, assolta o premiata. Ci vuole autocritica, sia pure accompagnata all’autoironia. Per diventare una brava attrice bisogna crescere come persona. Io ce l’ho messa tutta».
Che valori intende trasmettere ai suoi figli Jacopo e Anna?
«Innanzitutto la sicurezza in se stessi. Devono imparare a scegliere seguendo il cuore e l’istinto, non le pressioni degli altri. Mia figlia Anna vuole fare la fumettista».
E come insegna a sua figlia a difendersi dalle eventuali molestie?
«Facendo vergognare l’aggressore, portandolo a sentirsi piccolo piccolo. A volte le parole giuste, la derisione possono essere più efficaci degli insulti o delle spinte».
Come si vede a 50 anni?
«Spero di essere in salute. E ancora più avanti sul cammino della mia personale evoluzione: più sensibile, dotata di maggiore carisma. I 50 sono ormai un’età felice in cui le donne raggiungono lo stato di grazia. E ben vengano le rughe se indicano l’arricchimento interiore. La giovinezza, tutto sommato, è la bellezza del somaro».
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