Ai piedi del podio, con la bacchetta sul leggìo e alle spalle gli oltre cento ragazzi della JuniOrchestra di Santa Cecilia (età media 20 anni), Vanessa Benelli Mosell è solo Vanessa. Giovane tra i giovani.
Con una bella responsabilità sulle spalle e dipinta sul viso: Alessandro Benetton ha scelto lei come immagine forte per il lancio mondiale dell’operazione Mundys, il gruppo che converge sulla mobilità sostenibile nel mondo che proprio da Fiumicino e da questo aeroporto eccellenza italiana lancia una nuova sfida aziendale. All’evento Enrico Laghi di Edizione, Giampiero Massolo di Mundys, Marco Troncone e Claudio De Vincenti, ad e presidente di Adr che hanno applaudito Benelli Mosell. Lei ha 36 anni, ma nella musica c’è da oltre trenta. E gli aeroporti internazionali li frequenta da oltre venti. Da pianista eccellente e direttrice d’orchestra ha già fatto qualche giro del mondo e da qui prosegue per i prossimi. «La scelta ricaduta su di me per questa partenza di Mundys mi onora e inorgoglisce. È una tappa ben meditata, pesata e pensata. Le idee che Benetton e il suo gruppo di lavoro mi hanno presentato mi convincono: c’è il ritmo della mobilità che è musica, c’è inclusività e c’è un’attenzione alla cultura come strumento anche per una dimensione industriale globale».
Per il concerto che “apre” la stagione di Mundys ha scelto delle danze.
«Borodin, Bartók, Ravel e West Side Story di Bernstein: sì, mi pareva simpatico unire movimento e viaggio. Un po’ la mia dimensione: sono in continuo movimento. Quando ci si sposta, per lavoro, per amore o per diletto, si cambia. Io penso che muoversi ci predispone ad essere migliori, certo diversi».
West Side Story, a quale versione si è ispirata?
«In molti parlano meglio della prima versione, quella pluripremiata agli Oscar. Ma io voglio fare un discorso generale: troppe volte diciamo che il passato è migliore del presente e siamo scettici sul futuro. Ecco, io dico che è il momento di cambiare musica: il progetto di Mundys punta su questo e perciò mi piace. Perché si sposa con la mia vita e il mio atteggiamento artistico».
Le direttrici d’orchestra non sono più mosche bianche (per quanto siano meno del 5%), si affermano come lei, la Venezi e altre. Abbiamo la prima opera composta da una donna per la Scala… Anche qui, come nella politica, in Italia s’è rotto il tetto di cristallo?
«C’è ancora tanto da fare, certo. Se no questa domanda non me la porrebbe. Essere una musicista donna al vertice fa ancora notizia. Non ha senso, ovvio, adagiarsi su queste piccole vittorie. Non diamo mai nulla per scontato, ma io punto al giorno in cui – nel mio mondo – daremo accento solo alla musica. Perché a me pare davvero evidente che il gender non influisce in nulla su come si suona, sul talento. A me piace che in Mundys si dedichi tanta attenzione a eliminare il gender gap, perché nel lavoro c’è molto da fare. Penso anche al mondo del business della musica, al lato manageriale delle orchestre. Quel che voglio intorno a me, e in questo progetto lo ritrovo, è più diversità e inclusione. E nella musica nessun pregiudizio per sesso, età, orientamento sessuale, religione. Senza predominanza. Nel mondo della classica ci dobbiamo impegnare per questo».
Anche Paolo Conte alla Scala è una rottura d’argine?
«Proviamo a vederla alla rovescia: mettiamo sempre più artisti del mondo “classico” a contatto con i luoghi del pop. Via l’aura di elitismo dei teatri tradizionali, su questo concordo: alla Scala mi sono esibita con Patti Smith, la preferita di mia madre. Due bis nel mio concerto da solista: Peaceble Kingdom e Because the Night. È stato bello, così come molti venendo per la prima volta alla Scala per Conte avranno “sentito” il fascino dei velluti e degli ori e compreso la magia di un luogo. E magari torneranno per Verdi».
Moltissima la musica scritta da uomini, meno le composizioni al femminile. Da direttore d’orchestra, come vive tutto ciò?
«Non c’è differenza nella scrittura, così come nell’esecuzione e nell’interpretazione secondo me. Ci sono voci maschili e femminili, ma il violino è uno. Nei contemporanei, però, la parità si sta raggiungendo. E nelle mie scelte interpretative anche. Penso a Olga Neuwirth, il genio non ha genere».
Cate Blanchett non ha vinto l’Oscar, con la storia di Tár, ma ha acceso un faro sulla figura del direttore d’orchestra. Anche drammatico, sul modo di gestire il potere e la gerarchia in un gruppo di lavoro e vita.
«È una storia verosimile. Tantissimi e scioccanti i riferimenti al nostro mondo. Molti dei nomi che vengono fatti nella storia sono di persone che conosco bene, con cui lavoro e Tár rappresenta bene la nostra realtà: poi lei, Tár, condivide tutto della sua vita con l’orchestra, si prende anche il brutto che c’è. È un racconto verista, tetro, berlinese senza regali. Io non sono così, ma ci sono direttori così, anche donne come lei. A me piace creare un ambiente armonioso, dove ci sia grande rispetto e il rispetto parte dalla preparazione. E dove a predominare sono i contenuti che esprimi e non il ruolo che ricopri».
Un’orchestra ha bisogno di tutti.
«La classica propone un modello gerarchico, certo. Nella scrittura della musica c’è gerarchia tra melodia e accompagnamento, per esempio. Ma mettere sempre l’accento su questo nel 2023 è anacronistico: io devo far sentire importante la tuba con le sue 10 note suonate e il violino e le sue 10mila».
C’è un segreto, un metodo Benelli Mosell?
«Se non ti prepari e rispetti profondamente l’opera che ti viene affidata non puoi essere autorevole, coinvolgere e condividere davvero. L’orchestra questo lavoro, per fortuna, lo fa insieme. Il direttore è orecchio esterno e cuore: per l’emozione e il ritmo vitale che deve saper trasmettere a tutti. Funziona se tutti crediamo che l’arte è di più di tutti noi. Come in un’azienda: le cose funzionano se chi guida non chiede che le cose si facciano per lui ma per l’obiettivo da raggiungere».
A sceglierla, giovanissima, un mito della musica contemporanea, Stockhausen.
«Un guru nato 100 anni fa e già un classico come Strauss o Brahms. Adoratissimo dai Millennials. Ero un’adolescente: ho assorbito tutto in quel tempo a Kuerten, si viveva per 24 ore al giorno immersi nei suoi suoni, nella sua elettronica. Uno così se non lo conosci a fondo, non puoi interpretarlo».
Suonerà a Sanremo, con il suo repertorio. Lo farebbe Sanremo da direttore?
«Andrei a dirigere una romanza classica: un esperimento come quello di Bolle con la danza. Anzi, meglio, con Roberto: danza e classica insieme su quel palco. Portare il nostro repertorio al grande pubblico. Con un’orchestra come questa (li indica), la JuniOrchestra: vedere in tv oltre cento ragazzi che suonano, così convinti, così capaci sarebbe una scossa per gli altri giovani che guardano al festival per i loro miti. E comunque anche Verdi andrebbe bene all’Ariston».
Lei ha studiato e vissuto a Mosca.
«La guerra è una tragedia enorme, la sofferenza la vivo molto da vicino. Mi crea imbarazzo pensare ai miei colleghi, all’arte di quel Paese che viene ovviamente penalizzata, come simbolo di una nazione. Nessuno ce l’ha con gli interpreti e gli artisti, ma celebrando quegli artisti si finisce per celebrare una nazione che ha portato la tragedia in Europa».
Ma cosa ascolta e come vive Vanessa, quando non ha la bacchetta in mano?
«Di tutto. Davvero: dall’hip hop al jazz. Prince, Diane Krall e Nina Simone, spesso Nina. Il tempo libero per me è Prato e Parigi, i miei luoghi. E il cinema, rigorosamente in sala. O teatro. O i musei e l’arte contemporanea: sono una fan di Jeff Koons, a Palazzo Strozzi la sua personale è stata un’esperienza fantastica. Magari qualcuno si scandalizza ma a me piace quando un artista riesce ad arrivare a tutti e a introdurli in uno sforzo percettivo. Mi sarebbe piaciuto vivere nella New York degli anni Settanta, quella di Warhol e del suo gruppo di artisti che rompevano gli schemi usando il pop. Penso a Peggy Guggenheim e al suo sforzo di mecenate del modernismo. Mi piacerebbe che questi anni Venti del Duemila potessero essere di grande ispirazione artistica e di motivazione per una musica che – di fronte a tante tragedie – rappresenti una nuova identità».
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