“Oggi ho imparato a volare e non me ne voglio più dimenticare…” Chissà se Margherita Buy ha mai canticchiato i versi di quella canzone di Finardi quando pensava, scriveva e componeva il puzzle da regista della sua opera prima.
Volare, appunto, è una storia vera che diventa commedia, perché farci maschera (lo spiegherà l’attrice più premiata del cinema italiano) ci aiuta a rivelare e rivelarci. Margherita ha paura di volare, una paura ancestrale e comunissima. E qualche tempo fa – dopo troppe occasioni perse (di vita, di cinema, di relazioni) – ha frequentato un corso di “liberazione” organizzato da una compagnia aerea (Ita è partner produttivo del film). Quando impari a volare, se ti guardi indietro vedi quello che hai perso e percepisci la libertà che ti negavi e che ora ti spetta. Ecco Margherita si sta prendendo tante libertà e altre se ne prenderà.
Quel corso una lezione di vita, come dirigere questo film.
«Mi ha aiutato scherzare sui miei limiti: ho digerito, metabolizzato una paura che vista come la raccontiamo noi fa anche ridere. Anche perché non è la più seria che ho provato. In ogni caso ho mandato i miei cosceneggiatori a fare il corso come me: si sono finti fifoni e hanno assistito a scene divertenti, colto timori profondi: quell’umanità, di cui faccio parte, è più divertente se non condividi la paura…»
Che esperienza è stata quel corso?
«Mi ha messo in crisi: ho impiegato tempo a elaborare tutto quello che ho provato. Tanta gente nasconde questa paura. Alla fine con quel gruppo siamo diventati un coro di emozioni: riso isterico, pianto. Potevamo fare tutto senza comprimerci. Ed è nata una chat. Anzi: la Superchat. Ora sono tutti in attesa del film: molti saranno con me alla prima, ci riconosceremo».
Nel film anche alcuni passaggi horror che fanno molto ridere.
«Quelle visioni catastrofiche fanno capire cosa passa per la testa di chi ha paura: non solo del volo. Ho preso il toro per le corna con la commedia: a questo serve il cinema. Io ho dovuto farlo tante volte questo sforzo».
Perché?
«Sono stata una timida patologica, da ragazzina sembravo una bipolare che si chiudeva poi esplodeva in modo agli altri incomprensibile. Mi hanno spesso detestato per questo, descritto come nevrotica. E mia madre diceva che una come me, che arrossiva per nulla, non sarebbe potuta essere un’attrice. Ma come col volo, invece, un equilibrio – difficile – l’ho trovato. Ce l’ho fatta».
La storia della nevrotica la infastidisce, si sente da come pronuncia quella parola.
«È stata una cattiveria gratuita: semmai, io non sapevo stare bene al mondo. Paure e ansie, sì (teneva anche una rubrica sull’ansia a Radio2, ndr). È che io ho sempre pensato di non essere all’altezza degli altri. Non metto a disagio nessuno, mi porto questa croce e basta. Ma nel processo di liberazione anche questo scalino l’ho salito. E la croce non la porto più. Tutto questo mi ha fatto molto male, altre cose sono andate bene…»
La più premiata dagli italiani…
«Tutti quei David (cerca ancora il primo vinto con La Stazione, perso in un trasloco, ndr), i Nastri… Mi stupiscono, ma…»
Ma?
«Ma Buy è anche una donna molto in competizione. Quei premi mi hanno aiutato a costruire la fiducia. E siccome sono in gara anche con me stessa mi hanno reso perfezionista: da regista è una qualità irrinunciabile. I premi mi danno la sensazione di aver fatto bene. Per questo ne voglio altri».
Quei voli non volati sono occasioni mancate, premi non ricevuti.
«Sì, mi sono limitata. Qualche occasione grande l’ho persa, come l’AnnaBì del film, la mia maschera in Volare. Un premio a Mosca: ma il volo era russo e non mi sono fidata. Potevo girare il mondo, tanti festival. Ora ho un invito a Tokyo: ma il volo con la guerra in Ucraina è diventato anche più lungo… Anche con il corso io la luce d’allarme interna della possibile tragedia la tengo accesa. Penso sempre al peggio. Un po’ anche nella vita».
Cioè?
«Vivo sempre dicendomi: stai in campana, Margherita. Vedi come sono andate bene le cose finora? Ti pare che andrà sempre così: il bicchiere è mezzo pieno, ma ci mette un attimo a svuotarsi».
Che nasconde questo vivere in difesa?
«Una tensione verso la responsabilità che alcuni ruoli hanno implicato: penso alla moglie di Moro. Anche alcuni leggeri, ma decisivi in un film. Voglio essere sempre all’altezza delle cose e non mi lascio andare».
Con questo rigore ha superato paure e limiti?
«Sì: ho capito che dovevo superare quel disordine mentale che mi bloccava da ragazzina e giovane adulta. Sono migliorata: si impara anche a volare…»
Nel film la figlia di AnnaBì è sua figlia, Caterina, tenuta a battesimo da Carlo Verdone. Sembrano dinamiche “familiari”, quelle tra lei e Caterina…
«Carlo ha parlato molto bene di lei e so quanto intransigente sia Verdone sul set. È una ragazza, come vedete nel film e nella serie, molto matura, capace di ascoltare, intuitiva. Lei mi è stata molto accanto e a lei mi affido molto: la mamma sembra lei».
Qualche anno fa l’accompagnammo a Villa Ada, uno dei suoi luoghi del cuore, con stivaloni e mimetica a denunciare un taglio sbagliato di alberi, portando quel video al sindaco. Che poi intervenne.
«Se lo immagina farlo ora, coi social? Ecco la Buy che fa la civica per mettersi in mostra. I social mi spaventano, tutto viene strumentalizzato: se fai e se non fai. Se dici una banalità a Sanremo come “basta guerra” diventa un caso. Nel mio quartiere in silenzio pianto alberi con Retake, un’associazione benemerita. Ma oggi penso che devo prendermi anche questa libertà: fare più cose, fregarmene di quello che dicono e commentano, perché poi magari posso dare coraggio a qualcun altro. Non devo più avere paura».
Nel film è un’attrice, c’è un’agente-vittima (Anna Bonaiuto) e una collega-rivale (Elena Sofia Ricci che fa se stessa).
«Non è la mia agente, non sono AnnaBì e sono amica di Elena, una che sa mettermi in riga e con cui vorrei lavorare di più. Diciamo che nel film ci sono molte cose del nostro ambiente. Sono maschere, che indossiamo bene e ci servono come servono spesso nei film di Nanni Moretti…»
Ecco: guardando AnnaBì ho pensato che sia quello che Michele Apicella è per Nanni Moretti.
«Qualcuno dice che questa commedia abbia uno stampo morettiano: è un grande complimento per me. Nanni ha creato la sua maschera riuscendo ad essere severo con se stesso, ma con l’ironia di dire al pubblico “io so chi sono, voi divertitevi con la maschera di me”. In questo caso io racconto me stessa: me lo dovevo. In una scena del Sol dell’Avvenire siamo inquadrati a lungo, ci sono tutte le sfumature dell’amore: sopportazione, tenerezza, l’amore che è stato e che si trasforma. Lui lì ti insegna a trasformare te stesso in una versione cinematografica, con un occhio terapeutico».
Ed è la prima volta che lo fa.
«Sì: sono stata tanti personaggi scritti da altri e sono stata tante cose con pezzetti di me. Oggi da regista e attrice del mio film raggiungo un traguardo: affrontare me stessa con tanta libertà. Mi mancava la mia voce: eccola in Volare, la voce di Margherita. E questo è un grande privilegio».
Il film fa quel che deve fare una commedia: fa ridere e rende… più leggeri.
«Escono dal cinema e mi dicono: mi sono divertita. È un onore far uscire dal cinema le persone più leggere… Come dopo un corso per imparare a volare. È un onore far ridere la gente».
È anche un tempo di debutti femminili alla regia attesi, di successo, che fanno notizia.
«Deve diventare normalità, questa. Noi possiamo fare tutto, se accettiamo di fare quel corso per imparare a volare: buttiamoci, che possiamo».
E buttiamoci anche in un filmone hollywoodiano, Margherita.
«Ma, sì, dai: buttiamoci, ora ho anche imparato a volare».
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