25 novembre, l'attore Giuseppe Battiston: «Solo diventando uomini migliori possiamo risolvere la violenza sulle donne»

Alla fine ce lo siamo detti: non ci abbiamo girato intorno mai, ma la sintesi – quella – è arrivata a fine intervista.

«La violenza sulle donne dipende dagli uomini, quindi porre rimedio dipende da noi». Il giro intorno parte da un ruolo che riporta al cinema Giuseppe Battiston, dopo la fortunata performance tv in Stucky. È un investigatore anche ne Il Corpo di Vincenzo Alfieri, con Claudia Gerini, Andrea Di Luigi e Andrea Sartoretti presentato a Torino e in uscita in sala il 28 novembre. Nel film c’è un corpo di donna che muore, scompare, che si trasforma in fantasma utile a quello che è un giallo con finale a sorpresa che non sveleremo.

Molte delle storie di femminicidio più recenti, Battiston, mettono in luce figure di uomini incapaci di gestire un rapporto con una donna sicura, capace, libera. Anche ne “Il corpo” c'è un uomo in posizione non dominante.

«C'è nella società un'evidente difficoltà degli uomini di accettare un equilibrio dei poteri nel rapporto di coppia. Si va in difficoltà quando non si può disporre a piacimento della donna, dei suoi tempi, della sua vita. Alla base di questo e dei comportamenti conseguenti c'è una frustrazione che scatena una violenza indicibile. La cronaca ancora mi stupisce per quanto incredibili possano sembrarmi le storie. Sono preoccupato per l'efferatezza che finiamo con l'ingurgitare ogni giorno. Guerre e fatti di cronaca ci trasmettono violenza e contrapposizioni così radicali, insanabili».

Ha interpretato tanti ruoli, mai un femminicida.

«No, ma il conflitto forte nella coppia quello sì. In La giusta distanza di Mazzacurati c'è un femminicidio, ma io ero “solo” un uomo che trovava la moglie su un catalogo internet per poi rinfacciarle nelle sue liti la marca di scarpe che comprava. Era un film del 2007, ma oggi incontrarsi su web o social è la normalità per le nuove coppie: questo lo ritengo un termometro della salute spirituale della nostra società. Se non sei capace di parlare di persona, se hai bisogno di uno schermo, che è peggio di indossare una maschera, c'è un problema di centratura emotiva. Ci sono forme di comunicazione come dire buongiorno alla maestra o lasciar passare qualcuno quando si sale su un autobus, la buona educazione, che sarebbero fondamentali».

Poco più di un anno fa il femminicidio di Giulia Cecchettin, poi la manifestazione del 25 novembre più partecipata della storia: a che punto sono gli uomini? Stanno capendo i messaggi che stanno arrivando?

«Generalizzare non è mai giusto, ma su questo può aiutare. L'uomo è dominato dalla paura dell'universo femminile quando non sa come dominarlo. In generale direi che come uomini abbiamo paura a confrontarci, ad aprirci. Io ricordo molto bene quanto si arrabbiasse mia madre l'8 marzo: ci chiedeva, perché mi festeggiate oggi, perché solo oggi? Perché la festa dell'uomo è tutto l'anno, sottintendeva. Questi sono piccoli segnali, ma sono la certificazione del gap che facciamo fatica a superare, nei confronti della donna. Questo universo femminile per gli uomini è ancora troppo oscuro e di fronte a certi fatti da uomo devo dire che non sembriamo progredire molto».

Il suo collega Edoardo Leo ha realizzato un film traducendo l'Otello di Shakespeare in romanesco e portando la vicenda ai giorni nostri. Un femminicidio del 1600 così attuale…

«Questi delitti ci sono sempre stati, lo sappiamo bene, al di là dei numeri però forse è vero che oggi li stiamo raccontando di più e questo ci aiuta a pensare ai passi avanti da fare. Oggi le donne possono fare un segno con la mano e avere aiuto, ci sono leggi nuove, c'è il 1522 con le telefonate di denuncia in aumento. Parlavamo del caso di Giulia ed è esemplificativo: un ragazzo che pensava a Giulia come una cosa sua, alla fine è davvero come esercitare un potere medievale sulla donna. Io dico che è una fortuna, per tutti anche per noi uomini, avere donne più mature di noi».

Maturità emotiva, quella che si dovrebbe “allenare” anche nelle scuole e nelle famiglie.

«Le donne stanno acquisendo forza, usando la maturità nelle relazioni, decisamente superiore a quella dei maschi, per tenerci a distanza quando serve».

In “Amore, bugie e calcetto” si entra in uno dei luoghi del linguaggio più maschilista: lo spogliatoio… Le parole sono importanti, diceva Nanni Moretti.

«Beh, se ci si faceva un giro sui set fino a qualche tempo fa la predominanza assoluta di figure professionali maschili generava anche un linguaggio simile a quello di uno spogliatoio. Le cose anche nel cinema sono cambiate, per merito delle donne: ce ne sono molte di più tra le figure tecniche ed è più facile far passare la non accettabilità di atteggiamenti maschilisti. A tutto questo ora ci si oppone, di più, meglio e collettivamente».

C'è un tema che è quello dell'educazione genitoriale, da maschio a maschio.

«Mia moglie ha due figli che io contribuisco a educare come fossero miei: maschio e femmina di 18 e 20, età delicata. Io penso che la cosa più importante resta l'esempio che dai, il rapporto che hai con la tua compagna è la cartina al tornasole. Se vedono conflitto e prevaricazione, mancanza di rispetto e dei ruoli, magari non sarà matematica, ma poi i segni nelle nuove generazioni restano. Eppoi noi crediamo molto nel confronto diretto con loro, tra generazioni, ma noi amiamo anche vivere con amici che la pensano come noi, dal punto di vista educativo. Nelle famiglie che frequentiamo vediamo sintonia, con alti e bassi. Per noi magari era diverso, la paura di confrontarsi che c'è oggi tra uomo e donne, in passato c'era di più tra generazioni. Quando eravamo giovani, nelle famiglie non si parlava di niente: la società non era matura. Vedevi un padre piangere di fronte a una tragedia, un sorriso amaro mi viene pensando al fatto che si veniva bollati come deboli, ci si prendeva in giro se si mostrava l'emozione. Era solitudine da maschi: moto o donna, contava il possesso, il resto era segno di debolezza da nascondere».

In "Perfetti Sconosciuti" era quello “scoppiato” con la paura di dire ai suoi amici della propria omosessualità.

«È stato bellissimo essere parte di quel film-fenomeno: la gente usciva dal cinema e discuteva, per me totalmente analogico, uno rimasto al fax, è fondamentale che anche in sala, anche a teatro, non ci sia il silenzio. Esiste anche la contestazione, farebbe parte del gioco: invece oggi in sala l'unico rumore che senti è l'applauso alla fine, ma anche il fatto che il pubblico sia sempre lo stesso. Io vorrei avere di fronte quelli che non la pensano come me».

Ne’ “Il corpo” il suo personaggio è un investigatore-padre che condivide un sentimento fortissimo con sua figlia.

«Non possiamo svelare di più, il regista Vincenzo Alfieri non ha calcato la mano ma quel legame sembra venire da una tragedia greca».

Quella che ritroviamo nei mattinali di polizia, quando raccontano della violenza sulle donne.

«E che possiamo risolvere solo diventando uomini migliori».

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