Bérénice Bejo:«Io al fianco delle donne, da Zombi o da Milady. In Iran si muore per un velo, noi combattiamo il gender gap»

Occhi scuri, viso espressivo e temperamento vivace, corpo sottile e carisma naturale: Bérénice Bejo è una delle attrici europee più seducenti, ma nel film Cut! Zombi contro Zombi, una commedia indiavolata che fa il verso agli horror diretta da suo marito, il premio Oscar Michel Hazanavicius (in sala dal 31 ottobre al 2 novembre, evento di Halloween), ha accettato di apparire spettinata, coperta di sangue, addirittura con un’ascia conficcata nella testa. E fa morire dalle risate. Fuggita con la famiglia dall’Argentina al tempo della dittatura e oggi naturalizzata francese, 46 anni e due figli avuti da Hazanavicius (ma si prende cura anche degli altri due nati da un’unione precedente del marito), dieci anni fa Bérenice ebbe la nomination all’Oscar per il film muto The Artist che l’ha resa popolare nel mondo intero. Anche in Italia, dove l’attrice ha girato Il colibrì di Francesca Archibugi, attualmente in sala con ottimi incassi, nel ruolo del grande amore mai consumato del protagonista Pierfrancesco Favino. Senza trucco, allegra e disponibile, Bejo parla della sua vita divisa tra cinema e famiglia, di lotte per la parità, dei suoi legami con l’Argentina, dell’impegno civile che l’ha portata a tagliarsi una ciocca di capelli, come molte altre attrici, in segno di solidarietà con le donne iraniane uccise dal regime, del rapporto con il lavoro.

L’immagine per un’attrice è importante. Ci è voluto coraggio per stravolgerla in chiave comica in “Cut! Zombi contro Zombi”?

 «Ma quale coraggio. Ho voluto interpretare il film perché è molto divertente e attraverso il mio personaggio ho potuto mettere alla berlina gli attori che si prendono troppo sul serio».

 Nel film lei stende i nemici praticando l’arte marziale Krav Maga. Anche nella vita ha dovuto imparare a difendersi?

 «No, non ho mai avuto la necessità di andare in palestra per imparare a difendermi. Per mia fortuna non ho subito aggressioni».

 Oggi, dopo tante battaglie, per le donne c’è più rispetto?

«Il mondo sta cambiando, ma lentamente. Bisogna fare un lavoro costante, profondo, di educazione dei giovani. E ci vorranno generazioni per trasformare del tutto la mentalità e i comportamenti nel segno dell’eguaglianza. Viviamo ancora sotto il patriarcato: basta guardare cosa succede in Paesi non lontanissimi dal nostro».

Allude all’Iran, dove per un foulard indossato male le donne muoiono?

«Esatto. Dopo essermi tagliata la ciocca ho parlato di Hadith Najafi, la ragazza uccisa dalle forze dell’ordine, a mia figlia Gloria di 11 anni: è rimasta sorpresa, incredula. È cresciuta in un mondo libero e quella vicenda le sembra incomprensibile. In Iran si muore per un velo mentre noi donne occidentali ci battiamo per avere più potere, salari uguali a quelli degli uomini e per dividere con i maschi le incombenze familiari».

Anche in Francia le attrici vengono pagate meno degli attori?

«È così, per ora anche nel cinema la parità salariale non esiste».

La repressione in atto in Iran l’ha fatta pensare all’Argentina da cui fuggì piccolissima?

«Nel mio Paese d’origine la situazione era diversa. La dittatura si accaniva soprattutto contro i dissidenti politici. All’Argentina resto legata, ma non mi chiedo mai se mi sento ormai più francese. In un mondo globalizzato, la domanda non ha alcun senso. La presenza degli ”stranieri” arricchisce qualunque società. Quando torno a Buenos Aires mi diverto a parlare spagnolo con l’accento francese e la gente mi trova esotica. È meraviglioso».

Ci sono più vantaggi o svantaggi nel lavorare con il proprio marito?

 «Gli svantaggi non li vedo proprio. Anzi, mi considero molto fortunata perché tra Michel e me c’è una grande condivisione. Guardarlo lavorare è un’esperienza formidabile. È bravissimo a dirigere gli attori e io, da attrice, posso contribuire ad allargare il suo punto di vista. Non siamo una coppia tempestosa come Liz Taylor e Richard Burton: ogni tre-quattro anni giriamo un film insieme per il semplice piacere di farlo, ma il resto del tempo ognuno coltiva autonomamente la propria carriera».

 Dopo il successo mondiale di The Artist non si è più fermata: come concilia il cinema con la sua numerosa famiglia?

 «Come tutte le donne che lavorano, né più né meno. Con la differenza che nei periodi di inattività sto con i figli dalla mattina alla sera, cosa che un’impiegata non può permettersi…E se poi parto per girare un film, i ragazzi non ne risentono. Stare lontani dai genitori per un paio di settimane non ha mai traumatizzato nessuno».

 Com’è andata la lavorazione di Il colibrì?

«È stata una bellissima esperienza. È sempre un piacere lavorare in Italia dove il fatto di non parlare perfettamente la lingua mi regala una personalità diversa. E mi dà una libertà in più: quella di sentirmi protetta».

Con Favino ha legato facilmente?

«Sì, dal primo giorno. Picchio (il soprannome dell’attore, ndr) è un professionista ultra-riflessivo che si pone mille domande sul film, sul suo ruolo, su tutto il resto. Abbiamo fatto molte prove insieme e lui mi ha rassicurata. Ma mi sono trovata bene anche con Francesca Archibugi, una regista sensibile, divertente e soprattutto capace di rispettare gli attori».

Serie e film stanno offrendo sempre più ruoli interessanti alle attrici?

«Non vedo molte serie ma mi rendo conto che i personaggi femminili sono sempre più protagonisti sia al cinema sia sulle piattaforme. Produttori e registi hanno finalmente capito che le donne portano pubblico, ma ci sono ancora tanti ruoli stereotipati».

E c’è un personaggio che sogna di interpretare?

 «Ho appena riletto I Tre Moschettieri e mi sono innamorata di Milady, la nemica dei protagonisti. È manipolatrice, falsa, malvagia, insomma una persona esecrabile. Muoio dalla voglia di interpretarla ma non ne farei una cattiva alla maniera patriarcale. Punterei sul suo carattere di donna forte, proprio come l’ha descritta Alexandre Dumas. Approfitto di questa intervista per lanciare un appello ai registi: fatemi fare Milady e non ve ne pentirete».

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