Siamo un Paese bizzarro. Da mesi la politica non pensa che al nuovo inquilino del Quirinale ma a domanda i vari segretari di partito rispondono che «se ne parlerà più avanti».
Una Presidente al Quirinale per essere più vicini all'Europa
Oppure si trincerano dietro formule vaghe, tipo «serve una larga maggioranza per eleggere una personalità non divisiva», frase di buon senso sulla quale sarebbe difficile sentirsi in disaccordo, un po’ come succedeva a Catalano, il cultore dell’ovvio, indimenticabile presenza dell’antico programma tv “Quelli della notte”. Un metodo di recente introdotto per rispondere senza rispondere è buttare lì, con l’aria di dire una cosa rivoluzionaria: «Mi piacerebbe una donna». Perdindirindina. Questo sì che si chiama coraggio. All’alba del 2022, mentre la Germania ha appena congedato una che è stata premier per oltre dieci anni, la Gran Bretagna ha avuto per alcuni anni due donne al potere, prima la regina e la Thatcher e poi la regina e Theresa May, mentre in Francia Macron deve vedersela con delle competitor a destra, a sinistra e al centro, ecco, da noi siamo ancora al «per il Quirinale mi piacerebbe una donna», come fossimo al festival di Sanremo del 1958, con “Nel blu dipinto di blu”: «Penso che un sogno così non ritorni mai più».
Siamo o non siamo un Paese bizzarro? Che l’Italia sia pronta ad avere un capo dello Stato o un presidente del Consiglio donna lo si dice da quando, correvano gli Anni 80, il settimanale satirico “Cuore” lanciò Tina Anselmi for president. Poi venne il lancio di Emma Bonino, sempre for President e sempre senza risultato. A ogni elezione circolano nomi, l’ultima volta Anna Finocchiaro, Roberta Pinotti e pure in questo scorcio di 2021 i nomi di donne assolutamente Quirin-abili non mancano. E non mancano nomi che potrebbero sostituire Draghi a Palazzo Chigi, laddove si realizzasse un’ipotesi al momento ancora piuttosto solida. Ma, appunto, siamo ancora al «Mi piacerebbe una donna». E allora concentriamoci sulle candidabili, personalità che potrebbero egregiamente salire al Colle o essere – per la prima volta – prime ministre a Palazzo Chigi. I nomi si fanno sui quotidiani e nei vari conciliaboli ormai da mesi: la presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati, la giurista Paola Severino, neo presidente della Scuola Nazionale Amministrazione e vicepresidente della Luiss, la ministra della Giustizia Marta Cartabia, Letizia Moratti già ministra e ora assessore alla regione Lombardia, Rosy Bindi, già ministra ed ex presidente della commissione anti-mafia, Elisabetta Belloni a capo del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza. Sei nomi di grande prestigio che possono sicuramente reggere il confronto con i nomi di Giuliano Amato, Gentiloni, Casini, o, per dire, di Silvio Berlusconi. Mario Draghi corre su un binario diverso e certo gode oltre che della stima internazionale anche di un consenso popolare fuori discussione. Un altro candidato in passato evocato e poi deluso, Romano Prodi, ha così sintetizzato la corsa ad ostacoli per il Quirinale: «Più che i voti, contano i veti» e certo ciascuna delle Quirin-abili sopra citate può contare su riconosciuti punti di forza ma anche su ostilità più o meno superabile.
In questo, nessuna differenza rispetto ai Quirin-abili uomini. La Cartabia, per esempio, potrebbe non incontrare il gradimento dei 5 Stelle, la Severino troverebbe un ostacolo in quanti, dentro Forza Italia, non dimenticano che fu l’omonima legge a far uscire dal Senato Berlusconi (non a caso una legge firmata da una donna, chissà se un altro uomo avrebbe avuto la stessa fermezza), Letizia Moratti piace più a destra che a sinistra, Rosy Bindi più a sinistra che a destra, la Belloni ha gestito in vari momenti la Farnesina ma ministro non è mai stata. Eppure, se l’Italia volesse davvero sentirsi europea dovrebbe semplicemente prendere atto che, così come altrove la metà dell’elettorato è rappresentato da una premier o da una capo di Stato, così anche da noi almeno una delle due funzioni va attribuita a una donna. Competenze, abilità, duttilità ed esperienza non mancano alle signore sopra citate e ad altre che magari non sono ancora state evocate sui quotidiani. Il timing è giusto, opportuno, dopo decenni di attesa, cessare di essere un Paese bizzarro. E opportuno smettere di usare il condizionale. Invece di «mi piacerebbe una donna» cominciate a dire: «Stavolta sarà una donna». Al Quirinale o a Palazzo Chigi.