Alla fine di questo articolo sarete tutti un po’ più vecchi, di qualche minuto. Domani di un giorno e così via. È la nostra condizione, perché ne abbiamo così paura? Gran parte della vita la passiamo a litigare con gli anni, se ne salvano pochi. Dieci, quindici per le donne, venti per gli uomini. Quelli tra il “non ancora” e il “non più”. Gli anni di mezzo, grandi il giusto, gli unici fuori dall’ombra. Prima c’è l’età dell’incertezza, troppo giovane per contare qualcosa, poi c’è l’età dell’insicurezza, troppo maturo per valere qualcosa. Il tempo tarda, quando arriva il mio momento, il tempo corre, uffa è già passato. Vittime degli anni (le donne di più), senza il coraggio di dirlo. Ageism, al termine inventato nel 1969 dallo psichiatra statunitense Robert Neil Butler ci siamo limitati ad aggiungere una “o”. Vorrà dire qualcosa questo vuoto di parole. Un tabù, tra gli ultimi. L’unica discriminazione – la più comune in Europa – tollerata perché la legge la ignora. Se ne parla poco e male. «Il problema non è l’anzianità ma il modo in cui è percepita nella nostra cultura». Ashton Applewhite, attivista e autrice di “Il bello dell’età. Manifesto contro l’ageismo”, combatte questa «narrazione negativa».
STEREOTIPI
«Ma dai, non li dimostri». «Cosa vuoi saperne, tu, che sei ragazzo?». Pregiudizi sottili e taglienti, si mimetizzano in complimenti e sorrisi, si manifestano nell’orrore per i segni dell’età. Tutto rigorosamente anti-aging, compreso il dentifricio. Nemiche delle rughe e di sé stesse, di quello che si è diventate semplicemente vivendo. Come se fosse una colpa, vivere. «Attraverso la vergogna dell’età, ci zittiscono», Margareth Morganroth Gullette, altra guru, per anni ricercatrice dell’Università di Brandeis, Boston, parla di «sottomissione» e invita alla rivolta. Ribellarsi a tutto questo, scrive nella sua dichiarazione di protesta. Un nuovo #MeToo. Anche perché di ageismo ci si ammala. E si muore. Colpisce due ultracinquantenni su tre (il 65%), per una ricerca dell’università del Michigan. Due su 5 ne sperimentano quotidianamente varie forme, la percentuale sale tra le donne (43 contro 38). E sono proprio le persone più bersagliate a stare peggio in salute. Chi subisce discriminazioni per l’età vive in media 7 anni e mezzo in meno, secondo uno studio della Società francese di Gerontologia e Geriatria. Sei troppo vecchio per queste cose, se l’è sentito dire il 30% degli italiani intervistati in un sondaggio di 50&Più. Il 28% degli anziani, secondo una ricerca europea, ha subito «episodi di intolleranza». «Sono più degli atti di sessimo, il 22%, e razzismo, il 12. Ma a differenza di questi, l’ageismo è l’unica discriminazione non punita dalla legge», sottolinea Raffaele Antonelli Incalzi, presidente della Società italiana di Geriatria e Gerontologia e tra i promotori della campagna #OldLivesMatter, la vita degli anziani conta. «La pandemia ha evidenziato il pregiudizio». Ma potrebbe anche diventare l’occasione per rovesciarlo. Intanto si fanno i conti con la fatica di un anno di isolamento, gli altri un pericolo, «la solitudine inquina la vita. Siamo di fronte a una pandemia sociale che fa tantissime vittime», per Diego De Leo, vice presidente dell’associazione italiana di Psicogeriatria.
LA BARRICATA
«Da quasi un anno stiamo tutti facendo prove tecniche di vecchiaia, spaventati, bombardati da messaggi di malattia. Non viaggiamo più, non incontriamo amici come se fossimo vecchi. Ma i vecchi non sono così». La scrittrice Lidia Ravera ha fatto dell’ageismo «una battaglia politica. La migliore barricata della mia vita». Cura la collana dedicata al “Terzo tempo” per la casa editrice Giunti, ha scritto 4 romanzi con protagonisti «grandi adulti, mi raccomando, non anziani», e una serie tv “Old friends” su un gruppo di over60. «Il modello dominante è l’uomo bianco tra i 35 e i 55 anni. I giovani non vivono nessun protagonismo. E così i più grandi. Eppure gli ultra 65enni rappresentano il 23% della popolazione, dopo la pensione ci sono altri 30 anni di vita. Non ridisegnare la società tenendo conto di questa condizione è stupido». Nel 2050 gli ultrasessantenni nel mondo saranno 2 miliardi. Avanza una generazione di giovani 70enni che ricomincia con un’altra vita, e scopre che è meglio della precedente. E le donne? «Costrette a fare gli slalom tra gli stereotipi. Appassite, lamentose, brutte, noiose, ipocondriache e invidiose. Prima oggetto di desiderio, poi mogli e madri e quando i figli sono cresciuti non esistono più. A un uomo nessuno direbbe che è appassito, loro non sono vegetali come noi. Una donna scade, come lo yogurt. La bellezza ha una durata, e cambia. Si diventa mostri solo se si vive di stereotipi. Invecchiare bene è un’arte, l’età una ricchezza: si accumulano dolori, esperienze, conoscenza. Sto meglio adesso di quando avevo 20 anni».
L’ORGOGLIO
Age-pride, l’orgoglio dell’età, ancora non ci siamo. «Nei paesi scandinavi questi modelli sono stati smantellati, in Italia invece le donne grandi sono quasi invisibili anche nella pubblicità», la filosofa Maura Gancitano, fondatrice del progetto Tlon, da sempre attenta a condizionamenti e pregiudizi. «La pressione sociale sull’aspetto esteriore per noi è costante. La paura di invecchiare ci impedisce di trasformarci. E invece bisogna accompagnare questo percorso e tornara a riprendersi le parole, esser capaci di dire sono una donna vecchia perché della vecchiaia non c’è da vergognarsi. Dovremmo creare un ponte tra generazioni e scambiare esperienze, favorire il dialogo e imparare ad ascoltarci a vicenda». Adesso che siete più vecchi di qualche minuto sappiate che 4 anziani su 10 – secondo una ricerca Usa – dicono di sentirsi a proprio agio con sé stessi più di prima. Vecchi, per chi?