Il Bikini compie 75 anni. E ora la rivoluzione diventa arcobaleno, ecco i modelli "fluidi"

Caro bikini, è ora di cambiare. Un’età ce l’hai, stai in gran forma, per carità, e 75 anni non te li darebbe nessuno. Ogni estate continua ad essere tua. Però adesso, dopo tanti scossoni, è arrivato il momento di far pace, con te e con noi. Ti dobbiamo tanto, è vero, ci hai liberato, alleggerito il corpo e la mente, restituito la sensazione del sole su tanti centimetri di pelle in più. Ci hai regalato ogni stagione una rivoluzione e una tendenza: sgambata, castigata, arricciata, stringata, fluo, floreale, mono, tri, coordinata, scombinata, intrecciata, fasciata. Hai corso tanto e tanto ci hai fatto correre, che fatica starti dietro. Però, quante punizioni. Mai abbastanza magre, filiformi e slanciate per meritare l’ultima moda. E quella lotta con lo specchio, i fianchi tondi, i chili dell’inverno, il girovita allargato. Sempre non all’altezza del pezzo di sotto troppo sottile e di quello di sopra troppo vuoto, in lite con le taglie e il lato B. Che ne era della libertà promessa se il prezzo da pagare è stato la schiavitù della bilancia? Ecco, adesso che sei maturo, ti chiediamo più tolleranza. Di essere per tutte/i, meglio ancora con la schaw come vuole lo spirito di questi anni, più inclusivo e anche fluido, di rispettare le curve e assecondare i fianchi, di voler bene alle ciambelle e ai glutei imperfetti, di amarci per come siamo, rotonde e secche, incerte nella postura e nell’identità. Un bikini “arcobaleno”, che non escluda nessuno. C’è già chi ci prova da un po’ ad allargare libertà e misure, come le collezioni “body positive”, amiche delle curvy (XL con generosità) e dai tessuti sostenibili.

 

IL COMPLEANNO

O come il “brokini” inventato lo scorso anno da due canadesi, il bikini per uomini (e non solo) con una spalla, stile “Borat”, «il capo perfetto per deludere i vostri genitori». Poco più che uno scherzo (si vedrà se di successo), ma quante trovate demenziali hanno fatto tendenza. O come i modelli “non binari” proposti da chi non si ritrova in coppe o triangolo e nemmeno in pantaloncini da surf e li combina, fascia larga o top e calzoncini “neutral”. O la linea creata negli Usa da Jamie Alexander per Ruby, la figlia adolescente, e per tutte le ragazze transgender. D’altronde è destino dei costumi da bagno d’essere anche un po’ oltre, finanche “scostumati”. Lanciare bombe. Proprio l’effetto che cercava Louis Réard, quando il 5 luglio del 1946 mostrò il suo primo bikini. La Repubblica italiana era nata da un mese, le donne da noi scoprivano il voto e in Francia l’ombelico. Quel costume spezzato l’aveva immaginato “esplosivo”, l’ingegnere Réard che si occupava di automobili prima di passare alla lingerie (ereditando l’attività della madre) e di regalare alle bagnanti la cosa più piccola da indossare in spiaggia. Troppo osè, e fu costretto a chiedere a una spogliarellista del Casino de Paris, Micheline Bernardini, di indossarlo.

Quello scatto fece “boom”, non a caso l’ingegnere aveva scelto il nome bikini come l’atollo delle Marshall dove gli Usa conducevano test nucleari. La nostra storia, da quel momento, è stata in due pezzi. C’è una foto simbolo per ogni data. 1947: viene approvata la Costituzione e Lucia Bosè vince il concorso di Miss Italia in bikini. O il 1956, si comincia a ballare il rock’n roll con Presley, la Dc di Fanfani trionfa alle amministrative e Marisa Allasio in “Poveri ma belli” sfodera un due pezzi audace. O il 1961, la Corte costituzionale conferma la legittimità dell’articolo 589 del codice penale che punisce solo l’adulterio della moglie, e Stefania Sandrelli mostra l’ombelico in “Divorzio all’Italiana”. 1973, record di Novella Calligaris sugli 800 metri, prima telefonata da un cellulare e Carrie Fisher sfodera un modello bronzo nell’episodio “Il ritorno dello Jedi” di Star Wars, nell’anno del matrimonio di Carlo e Diana (1981), ecco Jane Fonda in short e pezzo di sopra nel “Lago dorato”, e saltando al 2005, le prime foto di piazza San Pietro con Papa Ratzinger, il debutto di YouTube e l’immagine (molto poco solenne) della modella Molly Sims che indossa il bikini più costoso del mondo, 30 milioni di dollari, tutto diamanti. C’è chi sostiene che il bikini sarebbe anche un termometro dell’economia, oltre che dell’umore di un Paese. Più c’è ricchezza, più piccolo è il costume, a “Wired” si sono divertiti a prendere le misure. Negli anni ‘60 con il Pil in crescita si usano in media 270 cm quadrati di stoffa, negli anni ‘80 va ancora meglio e i centimetri diventano 200, e nel 2009 (economia in picchiata) si torna ai modello retrò, quelli con i mutandoni degli anni ‘30, ossia 290 cm quadrati.

 

 

IL PIL

Chissà, di sicuro il costume creato da un ingegnere è stato il nostro specchio. «Prima del bikini il corpo era vittima dell’abbigliamento», Marco Pedroni è sociologo della cultura e della moda all’università di Ferrara. «Cominciare a scoprire la pelle ha significato combattere i modelli patriarcali, sfidare l’ordine costituito. Ma una volta che abbiamo liberato il corpo, abbiamo cominciato anche a misurarlo, con l’ossessione di diete, taglie e performance». Dalla liberazione alla sua negazione. E adesso? «Il capo che si era proposto come rivoluzionario si è da tempo normalizzato. Ridotto tutto quello che si poteva ridurre oggi è difficile scandalizzare. La domanda da farsi è questa: come può un capo che è stato simbolo di liberazione del corpo, incrociare nuove battaglie per i diritti civili e per la sostenibilità? Può diventare uno strumento identitario, farsi portatore di un messaggio politico per la definizione e la rivendicazione di identità fluide? Di certo ora è più democratico, non riservato solo alle magrissime. L’industria della moda ha cominciato a pensare a un mercato allargato e a un corpo etnico». Sulla spiaggia c’è spazio per tutte le taglie. Tanti auguri, caro bikini. E una preghiera: liberaci ancora, di nuovo, sempre.

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