L'attrice Marianna Fontana: «Amore, vita e fatica, i miei quattro mesi da operaia inseguendo la "Luce"»

Ogni volta una rivoluzione da fare. Cercando una luce nuova per quella sua faccia così asimmetrica, eppure gemella.

Stavolta Marianna Fontana ha fatto quello che si faceva una volta nel cinema, anche italiano, quello dell’impegno. Ha preso un pezzo della sua vita, quattro mesi interi, e lo ha percorso entrando in fabbrica, una conceria della provincia campana, quando era ancora buio e uscendone, con le altre operaie alla linea di stiraggio delle pelli, quando era buio ormai. Dentro e fuori cercando la Luce, si chiama così la pellicola vista in anteprima nei giorni di Alice nella città alla Festa del cinema di Roma. In questo film, disegnatole addosso dai registi Silvia Luzi e Luca Bellino, Marianna artista completa da sempre scopre il lato “fisico” del lavoro. La fatica della routine, la polvere che ti si posa addosso, il rumore delle macchine: nulla è digitale, tutto analogico anche se grazie ad un drone, scoperto per realizzare un filmino per una comunione, trova il modo di attivare una linea di comunicazione con un padre recluso e fantasmatico. Realtà e fantasia, luce e buio, rumore e silenzio. Poco spazio per perdite di tempo virtuali.

Quattro mesi in fabbrica, attori e attrici che sono i veri lavoranti. Una cosa da cinema d’altri tempi, neorealista.
«Un’esperienza particolare, rara per un’attrice e un lavoro molto diverso da quello fatto per gli altri miei film. Serviva una preparazione lunga, una realtà vissuta lì, a Solofra, in fabbrica. In linea di produzione con le mie compagne di lavoro, che poi sono le altre interpreti del film. All’inizio ero un po’ spaventata: io ho vissuto in una famiglia normale, anche se io e mia sorella gemella siamo da sempre cantanti-attrici, sappiamo cosa significhi il lavoro per portare a casa il necessario per vivere».
Come l’hanno accolta le colleghe?
«Nessuno conosceva il ruolo che avessi nel film, la mia carriera. Sono stata assunta, come le altre, dopo un colloquio con il datore di lavoro. Ho anche un po’ di contributi versati, mi sa… Poi in linea, certo, all’inizio c’era impaccio da parte mia, ero in difficoltà perché le colleghe erano più esperte alla catena di montaggio».
Che effetto fa il lavoro “vero”?
«Il film si chiama Luce perché lì si entra in turno alle 6 e si esce alle 18. Poi comincia, per tutte e tutti, un’altra vita. Lì dentro c’è il rumore delle macchine, le pinze che afferrano le pelli per tenderle; i montacarichi. Rumori diversi dal set, quello è stato un set naturale: non c’era scenografia, quello che vedete è lavoro vero, al ritmo vero, senza fermare nulla del processo produttivo. Non c’è smart working lì. Ci sono i calli veri che mi sono fatta alle mani, come le colleghe; le gambe pesanti per una giornata passata in piedi; la sensazione di quanto sembri rapida la pausa di un’ora per il pranzo, la sigaretta».
E il dopo?
«Ero stanca, non avevo voglia neanche di una telefonata. I riferimenti di alcuni film francesi o del libro Alla linea di Ponthus mi sono stati tanto utili: ho capito che fame di vita c’è, oltre quel tempo passato in fabbrica».
Com’è stato conoscere le sue compagne di lavoro, così diverse dalle colleghe del mondo del cinema, credo.
«Era bello ascoltarle, ascoltare le loro storie di madri, di donne che erano lì per costruire qualcosa per loro e per le loro famiglie. Sono stata folgorata da tutta quella vita, quelle domeniche in cui non avere le gambe stanche per essere donne fuori dalla fabbrica. E a me sono parse bellissime con le attenzioni rivolte alle unghie o a come acconciarsi i capelli. Noi abbiamo girato anche fuori dalla fabbrica, in quell’altro tempo, in cui loro hanno la possibilità di riscoprirsi, fuori dal ruolo che rivestono in fabbrica, fuori da quelle comunicazioni minime, anche scortesi certe volte come capita sul posto di lavoro. Parlavano di ovaie bruciate, di segni e di come divertirsi. Le piccole cose delle vita non mi sono sembrate mai così importanti come in quei quattro mesi a Solofra. Sento una grande responsabilità nel dover raccontare con questo film le loro storie, quelle vite e quei caratteri differenti vogliosi di una loro rivoluzione».
Nel lavoro delle donne c’è – anche – il tema della differenza salariale, delle carriere rese più lente dalla maternità, dall’accudimento.
«Io sono ancora lontana, ora, dall’idea della maternità, vivo un’altra fase della mia vita. Vedevo nelle colleghe il corpo che cambia, che aggiorna esigenze e priorità. Da attrice il nostro corpo si mette a servizio della storia, essere madri e accogliere una vita nuova vuole dire dedicare il proprio corpo a questo. Tutto questo le donne non devono pagarlo».
In “Luce” c’è un rapporto padre-figlia con un genitore fantasma.
«In questo film il lavoro non viene criminalizzato, viene oggettivato anche per descrivere questa dimensione di fantasia tra un padre che esiste nella voce di Tommaso Ragno al telefono e l’immaginazione del mio personaggio, che vive una dimensione parallela».
Anche nel recente film della Comencini al centro della vicenda un rapporto padre-figlia.
«In quel caso non era un fantasma: qui questa voce di uomo si ghosta appena può. C’è e non c’è. Mio padre, la mia famiglia al contrario sono stati e sono molto presenti, per fortuna, nel mio tempo. Hanno educato noi figli all’arte, ci hanno spinti quando a 16 anni io e mia sorella gemella Angela (entrambe indimenticabili sorelle di Indivisibili, David di Donatello nel 2017 per la miglior canzone, ndr) abbiamo vinto una borsa di studio per una scuola di recitazione. Non era scontato averli come primi supporter, venendo noi da Maddaloni, paesone della provincia di Caserta. Nel film invento una realtà che non esiste: vorrei conoscerlo meglio, ‘sto padre, ma sfugge. Tutto è fisico in fabbrica, tutto è ectoplasmatico e onirico fuori».
La partenza fulminante con sua sorella per un ruolo di gemelle siamesi sfruttate da una famiglia senza scrupoli in “Indivisibili”. Che rapporto c’è tra lei e Angela?
«Da quel progetto abbiamo preso strade artistiche che ci vedessero sempre separate, ma siamo le migliori amiche, le confidenti l’una dell’altra. Prepariamo i provini insieme. È bellissimo averla al mio fianco».
La scelgono per progetti molto intensi, duri. Ma Marianna è così?
«Io sembro Titina De Filippo, piuttosto: quando Bisio mi ha dato l’opportunità di recitare da suora pazzerella nella sua commedia di un anno fa (L’ultima volta che siamo stati bambini, ndr) penso di essermela cavata bene. Eppoi sono come il cioccolato: sembro dura, ma mi sciolgo facilmente. Diciamo che scelgo ruoli che hanno una rivoluzione da compiere, ma il mio istinto primario fuori dal set è quello del sorriso».
Ha parlato di Titina. Lei ha lavorato nella fiction sui De Filippo, è campana. È tra Titina e Sophia Loren il suo immaginario d’attrice?
«Un immaginario pieno zeppo. Tante sono donne forti del neorealismo e delle commedie figlie di quell’epopea. Penso a Titina, certo, ma anche Tina Pica e a bellezze eccentriche e innovatrici dei canoni, rivoluzionarie, come Silvana Mangano, Mariangela Melato. Ma soprattutto alle rughe belle di Anna Magnani. In questo film sto spesso al telefono con mio padre-fantasma e la mia ispirazione è stata la telefonata ne “L’Amore” di Rossellini con Nannarella. Un colosso».

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